sabato 27 ottobre 2012

Cronache di marzapane

Per conoscere la vera età di una donna basta guardarle le mani. Se sono maculate, ossute e dalla pelle diafana appartengono a una donna vecchia.
Per sapere quando è stato scritto un romanzo di fantascienza basta vedere come viene descritta la tecnologia. In “Cronache marziane”, di Ray Bradbury, ci sono pistole, fucili e bombe a mano. Alla fine di tutti i primi quattro viaggi d’esplorazione su Marte gli astronauti umani muoiono regolarmente, perché forse l’autore voleva metterci in guardia circa la temerarietà del voler abbandonare nostra madre Gaia. D’altra parte, se i nostri creatori Anunnaki sono venuti dal cielo, è ovvio che noi scimmie manipolate geneticamente si voglia seguire le orme dei padri.
“Cronache marziane” è stato pubblicato negli USA nel 1950, ben sessantadue anni fa. In Italia è arrivato quattro anni dopo, proprio durante la grande ondata di avvistamenti ufologici del 1954. Tanto per contestualizzare l’evento, negli anni Cinquanta esplodeva il sogno americano, l’economia girava a pieno regime, i giovani in stile Happy Days assaporavano le ultime vestigia dell’ingenuità puritana dei loro padri, ma con un occhio alla gioventù bruciata di James Dean, mentre il bel tenebroso Marlon Brando furoreggiava con film su ribelli e anticonformisti. Stereotipi, questi, che sarebbero sfociati nel romanzo “On the road”, di Jack Kerouac e nel movimento hippy degli anni Sessanta, che, insieme alla guerra in Vietnam, segneranno la fine del sogno americano.

Nel 1961 vengono rapiti i coniugi Hill. E siccome “Cronache marziane” contiene una blanda morale ecologista, dobbiamo aggiungere che nel 1962, dodici anni dopo, esce “Primavera Silenziosa”, di Rachel Carson.
E’ uno di quei romanzi in cui i negri vengono chiamati negri, senza i tanti falsi moralismi che sarebbero venuti dopo, ma che non sarebbero serviti minimamente a rendere la gente meno razzista di quello che è. Nel capitolo “Su negli azzurri spazi”, riferito al giugno del 2003, i negri lasciano l’America e s’imbarcano sui razzi da loro stessi costruiti per trasferirsi su Marte. Ciò provoca sgomento nei bianchi W.A.S.P. che vedono venir meno mano d’opera a basso costo, nonché un facile bersaglio per le loro frustrazioni. Bradbury pone questo esodo verso la nuova siderale terra promessa cinquantatré anni dopo l’uscita del suo libro e sicuramente non avrebbe mai immaginato che un afroamericano, di lì a poco, sarebbe diventato presidente degli Stati Uniti.
Il negro viene descritto come ancora succube del bianco, paziente e sottomesso, con l’arrogante ex padrone che lo prende in giro per la sua fede battista. Eravamo ancora in pieno Apartheid. La prima studentessa afroamericana avrebbe varcato la soglia di un’università nel 1957 e Martin Luther King sarebbe stato ucciso nel 1968. L’altro giorno, forse come manovra occulta a favore di Obama, una ragazza di colore sembra si sia data fuoco, accusando in un primo momento tre uomini incappucciati, di cucluxclana memoria. Io, quando sento notizie come questa, penso subito ai candidati manciuriani, manovrati dai candidati alle presidenziali, come mostrato nel film omonimo interpretato dal bravissimo Denzel Washington.
Alla fine del capitolo, il padrone bianco deve accettare il cambiamento epocale che i viaggi spaziali permettono anche alla classe derelitta dei neri d’America. Ma quando ciò accade, secondo la trama del romanzo, ormai siamo già quattro anni dopo la prima spedizione, a cui seguirono altre tre, prima che la colonizzazione di Marte si avviasse pienamente.
Le prime quattro spedizioni sono di genere surreale. Muoiono quasi tutti. Nel febbraio del 1999 il capitano York e il suo pilota vengono uccisi da un marziano cacciatore, marito di Ylla, la romantica sensitiva che aveva sognato l’arrivo di due stranieri.
Nell’agosto dello stesso anno, il capitano Williams e altri tre astronauti vengono mandati alla ricerca della prima spedizione e finiscono in maniera surreale anche loro, uccisi da uno psichiatra marziano che li aveva presi in cura nel suo manicomio e che gli spara considerandoli mere allucinazioni.
Nell’aprile del 2000, scomparsa nel nulla anche la seconda spedizione, viene inviato su Marte il capitano Black, insieme a quindici suoi compagni di volo e tutti faranno una brutta fine, ma lo faranno in un modo degno della serie “Ai confini della realtà”.
Infatti, appena atterrati, si trovano di fronte ad alcuni villaggi del tutto simili a quelli che hanno lasciato sulla Terra e ciò gli fa in un primo momento sospettare di avere in realtà fatto un viaggio nel tempo e di essere misteriosamente arrivati nell’Illinois degli anni Venti.
Un’altra ipotesi che viene in mente ai nuovi arrivati è che si tratti di una colonizzazione compiuta nei primi anni del Novecento, all’insaputa del governo americano, da parte di europei che volevano così evitare il massacro della prima guerra mondiale. Ma quando Black e i suoi uomini cominciano ad incontrare i loro parenti defunti – Black suo fratello e i suoi genitori – si affaccia alle loro incredule menti l’idea che Dio abbia dato all’umanità una seconda possibilità, sistemando i morti terrestri su Marte e chissà su quanti altri pianeti.
Nonostante il capitano avesse dato ai suoi uomini, tranne ai due che lo accompagnavano, tra cui un archeologo come nel film “Prometheus”, la consegna di non lasciare l’astronave, tutti e sedici si riuniscono a quei familiari che sulla Terra erano deceduti da tempo ma che su Marte appaiono vivi e vegeti. Black viene calorosamente fatto accomodare nella casa della sua infanzia, tale e quale come se la ricordava. E così fanno tutti gli altri suoi uomini. Ma ad un certo punto, dopo che lui e suo fratello redivivo si mettono a dormire nella vecchia cameretta, come ai tempi della perduta infanzia, con i genitori commossi fino alle lacrime per averlo reincontrato, ecco che un dubbio lo assale.
Impossibilitato a chiudere occhio a causa delle emozioni della giornata, Black scende dal letto e, al buio, si avvicina alla porta per fuggire, in preda a un atroce sospetto. Ma il fratello, o quello che a lui così somigliava, è sveglio. Scende anche lui dal letto e lo uccide.
Il capitano Black, un attimo prima di morire per mano del marziano ingannatore, capisce che anche il resto dell’equipaggio sta facendo o farà di lì a poco la stessa fine, tutti vittime di un’atroce ipnosi telepatica. Gli invasi, superiori in doti medianiche, si oppongono agli invasori in un modo semplicemente inaspettato e sublime.
Con la quarta spedizione, del giugno 2001, le cose vanno un po’ meglio per i terrestri, perché ne muoiono solo sei su venti, cinque uccisi dal loro commilitone Spender che, più che impazzire, si fa prendere da una crisi di coscienza, e uno, Spender stesso, ucciso alla fine dal capitano Wilder.
I sopravvissuti ritornano sulla Terra senza aver trovato traccia delle prime tre spedizioni, ma gli scrupoli di Spender mettono la pulce nell’orecchio non solo al suo capitano ma a tutti i lettori del romanzo e qui diventa evidente l’analogia tra la colonizzazione di Marte ad opera degli americani e quella degli Stati Uniti ad opera degli europei, inglesi soprattutto.
Quando poi, nel capitolo intitolato “Il verde mattino”, Driscoll il seminatore, arrivato su Marte sei mesi dopo la quarta spedizione in qualità di colono, fa riferimento a Giovannino Seme di Mela, figura mitica dell’iconologia americana, l’allusione alla conquista del West diventa pienamente palese.
Spender uccide cinque suoi colleghi e poi si fa uccidere dal capitano, dopo averlo convinto della malvagità insita nel piano di occupazione del nuovo pianeta. Nessuno di loro sa nulla dei marziani, che aleggiano come presenza più metafisica che reale, ma tutti loro sanno quanto la fortuna dei coloni europei su suolo americano ha rappresentato una corrispondente sfortuna per i nativi amerindi. Il senso di colpa è ciò che fa di Spender un Unabomber ante litteram e lo porta, in un tete-à-tete con il capitano a pronunciare queste veridiche parole: “Tutto ciò che è diverso, insolito, non piace all’americano medio. Ciò che non ha impianti igienici come quelli in uso a Chicago è per lo meno assurdo. [omissis] E poi….la guerra. Ha sentito anche lei i discorsi in Parlamento, prima di partire. Se le cose andranno bene, sperano d’impiantare tre città di ricerche atomiche e depositi di bombe atomiche su Marte. Il che significa che Marte è finito”.
Parole che fanno riflettere, pronunciate nel 1950, giacché indicano il germe di un ecologismo ancora di là da venire.
Nel novembre 2002 arrivano i missionari, che non potevano mancare. Non a caso, il sacerdote che li guida si chiama padre Peregrine, chiaro riferimento ai padri pellegrini del May Flower. Un anno prima, il testardo colono Driscoll si era rifiutato di tornare sulla Terra, su parere medico, a causa degli svenimenti che lo coglievano per via della scarsità d’ossigeno dell’atmosfera marziana. Lui, caparbiamente, si era messo a seminare alberi, in quello che oggi si chiama terraforming.
Così i missionari trovano un’aria migliore. Informatisi su dove trovare i marziani da catechizzare, viene loro suggerito di andare nei saloons a convertire giocatori d’azzardo e prostitute, ma Peregrine s’impunta e vuole a tutti i costi un approccio con i nativi. Allora gli spiegano che a volte sulle montagne si vedono sfere di luce e qui Bradbury ci azzecca in pieno nonostante quello caduto nel 1947 a Roswell, tre anni prima dell’uscita del romanzo, non fosse precisamente una sfera di luce, ma un disco volante dadi e bulloni.
Peregrine viene accontentato. Ha la sua esperienza mistica nel deserto. Quelli che poco tempo prima prendevano sembianze umane, ingannando i terrestri invasori in un estremo tentativo di difesa, qui hanno solo la forma di sfere di plasma. E non sono aggressive, ma amichevoli, tanto che salvano la vita al missionario e ai suoi riluttanti confratelli. O almeno così lui si convince.
Una bella predica di Peregrine, pronunciata per spiegare il suo irremovibile zelo, è degna di essere qui riportata: “Se domani scoprissi che gli elefanti di mare improvvisamente posseggono il libero arbitrio, capacità d’intelletto, sapessero bene quando fare una data cosa è peccato, conoscessero il valore della vita e temperassero la giustizia con la misericordia e la vita con l’amore, allora potreste essere certi che io andrei a costruire una cattedrale sotto il mare. E se i passeri dovessero miracolosamente, per volere del Signore, ottenere domani anime eterne, io caricherei una chiesa di elio e mi darei a rincorrerli per il cielo e li seguirei ovunque, perché tutte le anime, quale che sia la forma che le contiene, se hanno il libero arbitrio e sono consapevoli dei loro peccati, arderanno tra le fiamme dell’inferno, ove non siano stati loro impartiti i sacramenti”.
Degno del migliore Hermann Hesse!
E si vede che Ray Bradbury non era stato ancora toccato dalle rivelazioni del padre dell’etologia, Konrad Lorenz, sebbene gli studi di quest’ultimo sulle oche risalgano agli anni Trenta, ma condotti in un altro continente, all’epoca impegnato nell’autodistruzione. Oggi, grazie anche agli studi degli etologi posteriori a Lorenz, sappiamo che gli animali, in fatto di consapevolezza, non hanno niente da imparare dall’uomo, ancora troppo presuntuoso. Colpisce, inoltre, nel pistolotto di Peregrine, il malinteso senso di responsabilità del clero mediatore tra le anime e Dio, che spinge i missionari a voler convertire a tutti i costi i cosiddetti selvaggi, nella fattispecie le sfere di luce marziane. Atteggiamento che nei secoli di colonizzazione europea degli altri continenti è stato funesto per migliaia di riottosi “infedeli”. Anche qui, come nel caso del proto-ecologista Spender, padre Peregrine incarna la coscienza sporca dell’America.
Il clou del romanzo si ha, secondo me, con “Il marziano”, e siamo già nel settembre del 2005, tre anni dopo l’arrivo dei missionari. Dei marziani che assumevano sembianze umane per liberarsi dagli invasori non c’è più traccia. Estinti? Bradbury non lo dice.
Anche di quelli che indossavano maschere d’argento, che veleggiavano sulle sabbie a bordo di fantastici velieri e che rappresentavano forse gli ultimi innocui partigiani rassegnati, non v’è più traccia. C’è solo qualche sparuto superstite come quello che fa amicizia, in un dialogo sfasato e assurdo, con Tomas, nell’agosto 2002, vittime entrambe di una finestra temporale più che di una reciproca allucinazione.
Oppure quello che nel settembre 2005 si presenta in una notte di pioggia a casa degli anziani coniugi LaFarge, prendendo le sembianze del loro figlio morto, Tom. Se il vecchio LaFarge sospetta qualcosa, quando si ritrova in casa un essere in tutto e per tutto somigliante al ragazzo defunto, la moglie Anne non mostra alcun turbamento e accoglie Tom senza fare storie.
Purtroppo però, nel prosieguo del racconto, accade l’irreparabile giacché i due anziani genitori insistono a voler portare Tom in città. Questi all’inizio si rifiuta, temendo di cadere in trappola (sic), ma alla fine accondiscende. In città, dove i due vecchi avrebbero voluto andare al cinema con Tom, avviene ciò che il ragazzo temeva. Nel pigia pigia della folla all’ingresso del cine, i Lafarge perdono di vista l’adolescente.
Subito sentono un clamore poco distante, con voci di gente eccitata e un capannello di persone che si avvia verso la casa di Joe Spaulding, loro vecchio conoscente. La notizia corre in un lampo: la figlia defunta dei coniugi Spaulding, Lavinia, è improvvisamente tornata.
All’inizio i LaFarge non ci fanno caso e cercano Tom per tutta la città, ma poi il marito di Anne ha un’intuizione. Corre nella notte alla casa di Joe Spaulding, si acquatta nel giardino e vede una figura femminile affacciata al balcone. Le si avvicina stando nell’ombra e le rivolge la parola: “Tom, sei tu?”. Insiste a lungo, bisbigliando per non farsi sentire dal padrone di casa. Alla fine, Lavinia, la figlia rediviva, gli risponde: “Vattene papà, non posso più venire con te e la mamma. Ormai è troppo tardi. Te l’avevo detto che sarei finito in trappola”.
Il Lafarge, pensando alla moglie rimasta ad aspettarli trepidante, insiste fino alle lacrime, implorando Tom di non morire una seconda volta, ché Anne non lo avrebbe sopportato. Così, Lavinia salta giù e il Lafarge si ritrova tra le braccia Tom, il suo ragazzo perso tra la calca fuori del cinema. Si accendono luci in casa. Un uomo armato di fucile si affaccia alla finestra. Tom e suo padre si mettono a correre verso il luogo dell’appuntamento con Anne. Sentono degli spari alle loro spalle. E urla di disperazione della moglie di Spaulding, che non trova più Lavinia.
LaFarge e Tom si separano, dandosi appuntamento al molo dove li aspetta Anne. Il vecchio arriva prima e fa in tempo ad assistere ad un evento pazzesco. Tom è inseguito da una turba di persone, tra cui un poliziotto che ha riconosciuto in lui un ricercato. Gli altri lo chiamano con nomi diversi, chi quello del padre, chi quello della moglie, chi quello del figlio.
Tom alla fine, conteso da mille mani rapaci, cade nelle braccia di LaFarge, ma il suo volto è una maschera mutevole. Cambia continuamente a seconda dei nomi che vengono pronunciati, a seconda delle mani che lo toccano. Il più esagitato è Spaulding che implora Lavinia di tornare a casa. Mentre il poliziotto cerca di mettere le manette ai polsi del ricercato, Tom in un ultimo spasmo si accascia a terra, morto, quasi liquefatto, irriconoscibile.
La piccola folla si disperde, il poliziotto si allontana brontolando, Spaulding torna a casa barcollando come un ubriaco. Anne piange sommessa poco distante.
Siamo in pieno clima “Ai confini della realtà” e, insieme al capitolo della terza spedizione, in cui gli astronauti vengono uccisi dai fantasmi dei loro parenti morti, Bradbury si rivela un grande maestro della fantascienza.
Non c’è molto da aggiungere, se non lo scontato olocausto nucleare della Terra, al quale anche i coloni di Marte si sentono chiamati, attratti più da un istintivo cupio dissolvi, che dal desiderio di combattere per la propria madre patria.
Nel 2026, prima che l’umanità si autodistrugga del tutto, alcuni pacifisti terrestri vanno su Marte in una specie di seconda colonizzazione, con piccole astronavi tenute nascoste in garage, come utilitarie, dopo che quasi tutti i primi coloni erano tornati sulla Terra a morire tra le fiamme atomiche.
Il finale di “Cronache marziane” ha un sapore melanconico, come quello del marzapane, tinto però di speranza in perfetto stile da Arca di Noè. Alla prima famiglia, padre, madre e tre figli maschi, che giungono su un pianeta coperto dalle antiche rovine marziane e da quelle più recenti dei coloni, sta per aggiungersi un’altra famiglia loro amica, con tre figlie femmine.
Ray Bradbury sembra voler dire che la continuità della specie umana è assicurata, nonostante la nostra congenita stupidità. 
Una razza veramente coriacea.

16 commenti:

  1. scusa, sto facendo prove tecniche per una utente di Sl che mi ha chiesto come commentare qui...

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    1. Anonimo misterioso e pure servizievole! :-)

      Sai dirmi se c'è qualcuno su Stampa Libera che senta la mia mancanza?

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    2. e sai che mistero! sono io che faccio prove tecniche:-)

      già, sembra incredibile ma qualche utente chiede di te e qualcuno vorrebbe postare commenti qui ma non riesce, ecco il perchè delle prove tecniche.
      ciao :)

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    3. @ Wasp
      sei stato davvero carino a manifestare il tuo affetto.. anche tu in fondo sei un'anima scaraventata sulla Terra e non sai perchè, come tutti noi. Ribadisco, che tenerezza, mica è colpa tua se sei cecato e non vedi le scie, magari ti ci vuole molto più tempo degli altri, un pò di pazienza.. :-)
      ciao

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    4. Ciao Alessandra. Chi ti ha detto che io non vedo le scie, ti ha detto una bugia. Io le scie le vedo benissimo tant'è che ne ho fotografate e pubblicate talmente tante foto che ho dovuto aprire un nuovo blog dato che il vecchio non me ne accettava più.
      Quelle che io non vedo sono le "scie chimiche" tanto decantate dagli sciacomici, con il formaggino dolce in testa.

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    5. Un mistero nel mistero: in virtù di quali misteriosi difetti genetici Angelo Nigrelli non si è ancora accorto che lo Stato, e le autorità costituite in genere, nel mentre si mostrano servizievoli con i cittadini, attuano i loro piani di sfruttamento e di oppressione nei loro confronti?

      Quali argomenti gli si può presentare per renderlo edotto della malvagità intrinseca, benché occultata, della struttura statale o sovrastatale esistente nella società?

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    6. Non sarà perché io ragiono e non mi bevo tutte le belinate partorite da tante menti in sofferenza?

      Vivi l'attimo... e sii felice! Del doman non v'è certezza.

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    7. Non focalizzarti solo sul problema delle scie chimiche, ma allarga la visione a tutto il resto.
      Se mi fermano per strada per un controllo e scoprono che non ho pagato bollo e assicurazione, mi sanzionano sequestrandomi la macchina, ovvero rubandomi la vettura.
      E' criminalità legalizzata.
      Legalizzata da cosa?
      Dal principio della sopraffazione in base al quale loro hanno il potere perché sono più numerosi di me e possono privarmi della libertà, del denaro faticosamente guadagnato e perfino torturarmi, se questo li gratifica.

      Per me sono veri nemici, ma sono troppo numerosi per combatterli. Se ne ammazzo uno, o due o dieci, in breve ne spuntano migliaia di altri, come nei peggiori incubi horror, e alla fine mi uccidono.

      Queste non sono belinate. Queste sono le regole della società fin dall'alba dei tempi, da quando:

      1) gli alieni sono sbarcati sulla Terra imponendo le loro regole;
      2) gli ominidi litigiosi si sono evoluti fino a diventare legioni divise in razze e nazioni su base gerarchica.

      Scegli tu quale delle due opzioni ti è più consona.
      Il risultato non cambia. C'è chi comanda e chi obbedisce. Io non voglio fare né l'una né l'altra cosa, da vero anarchico, ma sembra che non sia possibile.

      O ho sbagliato io a nascere su questo pianeta o sono sbagliati loro, con le loro regole spietate e violente.

      E poi tu mi vieni a dire di essere felice!
      Ti hanno dato il "soma" uxleiano, per caso?

      :-)

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  2. ah ma allora funziona anche senza account.. :-/ ?

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  3. Roberto ho provato più volte a postare dei commenti ma non ci sono riuscita, ora faccio un altro tentativo.
    loto

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    1. Ah, Loto!
      Fiorellino esotico!

      Credo che tu debba fare l'account.

      Anch'io con Safari non posso commentare, ma con Firefox sì.

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    2. Veramente io mi chiamo Laura, ma poichè su SL postavano altre Laure ho scelto un altro nick e in quel periodo poichè mi stavo interessando al Sutra del Loto, mi è venuto in mente quel nome, però minuscolo per rispetto al Sutra.
      Ciao

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    3. Benvenuta Laura! Spero di averti tra i miei abituali frequentatori.

      Sembra che Freeanimals stia diventando il centro di accoglienza per i transfughi di Stampa Libera.

      :-)

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