lunedì 1 settembre 2014

Tagliatori di teste



In questi giorni mi sono fatto un’abbuffata dei commenti di Luogo Comune, sulla presunta decapitazione del giornalista americano James Foley. Poi, tanto per restare in tema, Francesco Spizzirri mi manda un sito in cui c’è una discreta collezione di teste mozzate in Siria e infine Tina mi legge la notizia del Gazetiko su un uomo di 50 anni di Andapa, nel nord del Madagascar, che il 14 agosto scorso è stato scoperto dalla moglie insieme alla sua amante, molto più giovane, e per questa ragione la moglie voleva chiedere il divorzio. Preso da un raptus, con il timore di essere abbandonato, il cinquantenne l’ha pugnalata e, già che c’era, ha ucciso anche il cognato giunto in soccorso. Entrambi, poi, sono stati fatti a pezzi. In questo caso, essendosi l’episodio verificato in un paese del Terzo Mondo, è difficile parlare di omicidio dovuto a microchip cerebrale o ad altre diavolerie tecnologiche azionate da remoto, ma si deve parlare di pura e semplice perdita del lume della ragione. Se non che, appena accortosi del macello che aveva combinato, l’uomo si è dato alla fuga, raggiunto però in breve dalla folla inferocita che non ha mancato di linciarlo a forza di botte. Sopraggiunti i due figli adulti dell’uomo, questi hanno provveduto a spiccargli la testa dal busto e, avendolo fatto a sangue freddo, a differenza del padre che aveva agito sotto l’influsso della collera, a me fanno ancora più paura, trattandosi oltre tutto dei figli stessi, e mi viene il sospetto che il germe della follia, in quello specifico caso, fosse ereditabile. Sul luogo dove l’uomo è stato decapitato, poi, si è debitamente provveduto a sacrificare un omby, affinché il sangue dell’animale sacro per eccellenza in Madagascar purificasse il terreno. Anche lo zebù è stato decapitato.


Di femminicidio si è parlato molto in Italia nel 2014, e anche l’anno prima, ma in nessun caso si è giunti alla decapitazione della vittima. Qui ad Ambolanahomby, un quartiere periferico di Tulear, al massimo viene rubato del pollame, benché Tina sia convinta che ci potrebbe essere un salto di qualità e dal pollame si potrebbe passare al vazaha e alla sua compagna. Per fortuna, la casetta in cui siamo alloggiati ha le inferriate alle finestre e la sera chiudiamo anche la porta di ferro che permette l’accesso all’abitazione. Per accedere al cortile c’è un portone di metallo che la sera viene chiuso con un grosso lucchetto e un’altrettanto robusta catena. Tuttavia, qui come altrove in Madagascar, i litigi e la violenza domestica non mancano e sabato 30 agosto io e Tina abbiamo assistito a un pestaggio da parte di un uomo nei confronti di sua moglie, entrambi di etnia Masikoro. Erano ubriachi e sono giunti a questo epilogo, con l’uomo che ha rincorso la moglie picchiandola con calci e pugni anche quando era a terra, dopo che la donna gli aveva rivolto brutte parole del tipo: “Mangia merda!”, oppure “Mi pulisco il culo con la tua testa!”. Come ho avuto modo di appurare con un conducente di ciclo-poussy, preso a pugni da un automobilista perché gli aveva detto: “Scopati tua madre”, i malgasci sono molto suscettibili alle offese verbali.

Quindi, non c’è da stupirsi se il nostro vicino di casa ubriaco ha malmenato la donna, che aveva cercato scampo nella fuga infilandosi nello stretto corridoio tra la nostra abitazione e il recinto in legno di katrafay di una casa in costruzione, ma che era stata raggiunta all’interno di un cortile. Dalla casa annessa però è uscito un giovane che li ha spinti fuori gridando all’uomo: “Vai fuori di qui se devi ammazzare tua moglie”. Ed è per questo, perché la scena si è spostata proprio fuori dal nostro recinto di lamiera, che io e Tina abbiamo potuto osservare il pestaggio, non visti, da una fessura del recinto. Mentre, con Tina al mio fianco, trattenevo il respiro osservando i calci che l’uomo elargiva gentilmente a sua moglie, mi sono chiesto quale fosse il mio dovere in un simile frangente. Intervenire o non intervenire? Tra moglie e marito non mettere il dito è un proverbio che Tina non conosceva, ma anche senza conoscerlo, poco prima, quando mi aveva visto uscire frettolosamente da casa con la macchinetta digitale in mano, mi aveva imposto di non uscire assolutamente sul viottolo. Siccome ho la tendenza a fidarmi di mia moglie, che meglio di me conosce l’ambiente in cui è nata e cresciuta, non mi è stato difficile obbedire alle sue ingiunzioni di non intervenire. Giacché, se da una parte si trattava della violenza di un uomo verso una donna a terra, come fanno spesso in Italia i poliziotti con i manifestanti, dall’altra avrei potuto andare incontro alla reazione inconsulta di un uomo imbestialito, per non parlare delle conseguenze legali che, se fosse stata chiamata in causa la polizia, sarebbero state tutte a mio sfavore, con i poliziotti a cui non sarebbe parso vero di trovare un vazaha in difficoltà e di metterlo ancora di più sotto pressione per estorcergli denaro.

Indi per cui non ho fatto niente, nemmeno una foto attraverso la fessura tra le lamiere, che con il flash automatico avrebbe potuto attirare l’attenzione su me e Tina, dall’altra parte della “barricata”. Non sapevo, in quel momento, se il portone d’ingresso fosse chiuso con la catena o meno e non potevo sapere se l’uomo, dopo aver massacrato di botte la moglie, si fosse messo a massacrare di botte anche il nostro non certo robusto recinto di lamiere. In quel caso sarei andato incontro, come minimo, alle spese per la riparazione.  Perciò, ho lasciato vigliaccamente che una donna ubriaca venisse colpita mentre era a terra da un uomo altrettanto ubriaco. E’ la disperazione dei poveri, che li porta a stordirsi nei fine settimana, grazie principalmente al toakagasy, il rhum artigianale, che costa poco e la cui gradazione è così alta che in ospedale lo usano come disinfettante al posto dell’alcol. E’ proprio per non finire in ospedale che mi sono comportato da vigliacco, come già mi era successo quando un collega manifestante, a Pordenone, fu malmenato dai circensi sotto i miei occhi, facendomi capire che la mia indole più profonda e vera è quella del pavido. Qui in Madagascar, comunque, sono convinto di aver agito per il meglio, non mettendomi di mezzo, e per questo ora sono qui a scriverne senza essere aggravato da conseguenze fisiche o legali. 

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