lunedì 20 ottobre 2014

Svuotare il mare con un cucchiaino

 
Fonte: Promiseland

Salita sul palco del VeganFest Indor 2014 con un intervento che ha emozionato e toccato i cuori di tutti i presenti, una personalità forte e gentile che riesce a trasmettere tutta la sua passione, è operatrice delle Nazioni Unite e di altre organizzazioni internazionali, su progetti di democratizzazione e umanitari, in Paesi in conflitto o in transizione. Ha all’attivo 25 missioni, dai Balcani all’Africa (per la maggior parte), all’Asia centrale, Sud-Est asiatico e in Australia. (articolo Promiseland 2 Settembre 2014)

Testo di Donatella Malfitano

 “Un proverbio del Mali recita più o meno così : « non è perché i tuoi occhi sono ciechi che devi smettere di lavarti il viso ».
Da quando un ragazzo locale, con cui ho lavorato durante la mia ultima missione ONU in Mali me l’ha recitato, ho pensato che ben riassumesse il meccanismo che mi lavora in testa e la motivazione che, di fronte a certe realtà, fa superare la frustrazione, continua a far credere.

In Mali avevo appena tenuto una serie di lezioni rivolte ad alcuni gruppi di scolari, su educazione ambientale e animale. Un test «pilota» di un progetto più vasto che ora svilupperò e che cercherò di implementare nel Paese.
In quei giorni cercavo di sgattaiolare fuori dal mio ufficio più presto, mi accordavo con il mio tassista di fiducia che passava a prendermi per andare a Kati, un quartiere a una ventina di km dalla capitale Bamako. Quella mezz’ora di strada, tra il traffico e le buche sembrava lunghissima, ma probabilmente questo era più dovuto alla mancanza d’aria (fresca), con i 40°C esterni, i finestrini aperti e il sudore che colava sulla fronte.
Il giorno della prima lezione, con i piccoli alunni di due scuole, stipati ma composti in una classe caldissima ma perfetta per l’occasione, ci si era arenati sulla prima parola, «ambiente». Cos’era l’ambiente?
Nonostante i miei numerosi anni di esperienza in Africa e in molti altri Paesi in via di sviluppo o reduci da guerre, ho dovuto fare un piccolo passo indietro. E partire dall’inizio. Spiegare in parole semplici cosa fosse l’ambiente e perché fosse importante, tanto da meritare un’«educazione» a suo riguardo e a quello dei suoi abitanti, compresi gli animali.
In realtà, proprio questo dettaglio, mi ha dato la conferma che il mio progetto fosse sulla buona strada e, anzi, fosse quanto mai necessario. L’accoglienza di certi argomenti e l’interesse dimostrato dai piccoli (e, di conseguenza, dagli insegnanti e dai genitori, che nei giorni successivi sono venuti a richiedere delle lezioni informative anche per loro) hanno altresì confermato che non c’è più tempo da perdere.

Se il pianeta Terra sta soffrendo e paga le conseguenze delle scelte degli stessi esseri umani, in certi posti tale realtà è ancor più drammaticamente evidente.
Il mio lavoro di operatrice in missioni ONU mi porta a viaggiare in posti reduci da conflitti o nel cosiddetto Terzo Mondo. Deforestazione, desertificazione, la miseria degli zoo – ancor più abbandonati in tempo di guerra – , il traffico illegale di specie protette di animali, per detenzione privata o destinato ai mercati locali di medicina tradizionale, scene quotidiane di maltrattamenti, il bracconaggio, il problema dei rifiuti…a volte sembra di trovarsi di fronte a un concentrato di tutte le problematiche di questo genere, di vedere le conseguenze dirette di tante scelte fatte dalla «nostra» parte del mondo e di assistere a quotidiane violazioni nei confronti degli animali e dell’ambiente. Per questo, in qualsiasi posto mi ritrovi, finisco inevitabilmente per attivare qualche progetto rivolto alla protezione degli animali e dell’ambiente, soprattutto in zone e situazioni di emergenza.
Una parte delle mie lezioni in Mali riguardava gli animali. Si trattava di “conoscerli”, di dare delle informazioni nuove e sconosciute su quelli più comuni e che in genere venivano visti unicamente come «carne» o mezzi di trasporto. Certe notizie lasciavano i piccoli alunni a bocca aperta e anche le fotografie a documentare il sacrificio di capre e montoni al termine del Ramadam suscitava quasi orrore, malgrado si trattasse di una pratica religiosa tradizionale.
Ma quando chiedevo quale fosse l’animale che soffriva maggiormente in Mali, ecco partire un coro unanime a rispondere: «l’asino!». Considerato un semplice mezzo di trasporto di qualsiasi cosa, dai quintali di immondizie, al cemento, alla legna, l’asino viene sostanzialmente bastonato tutto il giorno, tanto da procurargli profonde lesioni, sfinimento e morte. Nella capitale, e ancor più nell’entroterra, è difficile rimanere indifferenti di fronte a scene che avvengono ad ogni angolo della strada. Grossi bastoni levati al cielo da uomini e bambini che, seduti sul carretto, sferrano colpi fortissimi alle povere bestie, che pure continuano ad andare avanti. A volte neppure i maliani resistono di fronte a tanta violenza e sofferenza, urlano e sgridano il conducente ma poi finisce tutto lì.
Tra gli altri temi trattati, avevo anche chiesto se sapessero dove si trovasse il monte Kilimanjaro. Alcuni bimbi avevano indicato paesi limitrofi, la maggior parte non conosceva la riposta e forse un solo alunno aveva indicato il Kenya. A quel punto avevo chiesto loro se sapessero che anche il Mali avesse un monte Kilimanjaro. E lì mostrai le immagini di una montagna altissima in una discarica di Bamako. Una montagna di immondizia. Avevano sgranato gli occhi, sbigottiti, e increduli di rendersi conto di vivere davvero in mezzo ai rifiuti e che forse non era quello il mondo che avrebbero voluto.

Ho iniziato a fare sensibilizzazione, rivolta all’azione concreta, su questi e su altri temi, ma anche questo farà parte del progetto che svilupperò a breve.
Sensibilizzazione, tanta, è necessaria ogni volta che mi ritrovo a confiscare o recuperare qualche animale (specie protetta o meno), vittima di traffico illegale e rivenduto al mercato locale o ai bordi delle strade. Molto spesso, soprattutto in certi Paesi africani, si tratta di volatili, in genere pappagalli, catturati in quel che resta delle foreste, anche in Paesi limitrofi, e rivenduti per qualche soldo. Ai poveretti vengono strappate ali e coda in modo che non riescano a volare, nel caso scappino dalle gabbie, nelle quali comunque riescono a malapena a muoversi.

E’ difficile, almeno per me, rimanere indifferente di fronte a certe scene e purtroppo, in un certo senso, mi rendo conto di alimentare il mercato, comprando per pochi soldi volatili già allo stremo, per curarli e liberarli nella foresta. Così ho fatto in Costa d’Avorio, con una decina di pappagalli grigi (i cosiddetti «gris d’Afrique»), in Nepal (un centinaio di uccellini provenienti dall’India), e ultimamente in Mali. Tre pappagalli, di cui due grigi recuperati in un noto hotel internazionale della capitale. Il triste spettacolo di questi due animali, imprigionati in un’unica gabbia, tra il ristorante e l’entrata della spa era stato invece considerato dalla direzione un piacevole intrattenimento. Mi ci sono volute alcune settimane per riuscire finalmente a convincere direttore e staff che in realtà le cose non erano proprio così. In più i pappagalli erano stati catturati probabilmente in Guinea o Costa d’Avorio, proprio per essere destinati a posti come quelli e alimentare quel tipo di mercato. Sono riuscita a farmeli affidare. Due mesi di cure veterinarie  per le quali Djénéba, la donna tuttofare della casa che condividevo con un mio amico francese, è stata fortemente e volutamente responsabilizzata. Vitamine, antibiotici, acqua pulita e pure compagnia. Alla fine Djénéba si era così tanto investita nella causa «liberazione pappagalli» che quando finalmente tutte le piume erano ricresciute, si era sentita fiera e si era anche affezionata a quelle bestiole, comprendendo la finalità di quanto stavamo facendo. Lo staff dell’hotel a sua volta, inizialmente diviso tra personale irritato e quello sostenitore della causa animale, ha invece iniziato a chiedermi con interesse e partecipazione dello stato di salute dei due pappagalli, alla fine ringraziandomi per averli portati via da quel posto. «Hai ragione», mi dicevano «a nessuno piacerebbe trascorrere una vita in gabbia. La libertà è importante per tutti».
Il giorno in cui ho intrapreso il viaggio per rimetterli in libertà, è stata quasi una giornata solenne e con tanta emozione anche da parte di tutti quelli che erano a conoscenza della storia e che ora attendevano il lieto fine. Ho noleggiato un fuoristrada e mi sono diretta verso Est, a 500 km dalla capitale, dove mi era stato assicurato esistere una foresta protetta in cui i pappagalli avrebbero potuto sopravvivere, imparando da altri e unendosi a loro. In quel viaggio anche il mio autista si era appassionato alla vicenda e aveva voluto dare il suo contributo, aprendo una delle due gabbie, una volta addentratici nella foresta. Che emozione vedere i due volatili uscire, aggiustarsi le piume e spiccare il volo per poi appollaiarsi fieri su un ramo. Si erano messi su due rami vicini, quasi a condividere quel momento. Il giorno dopo sono ritornata sul posto ad assicurarmi che fosse tutto a posto e che la zona fosse davvero protetta. Stanca ma contenta avevo soggiornato in un albergo del villaggio. Il proprietario, conosciuto il motivo del mio viaggio, ne era rimasto talmente colpito che mi aveva offerto più volte da bere e applicato uno sconto al prezzo finale. 

Il giorno successivo tuttavia, camminando attraverso il mercato locale, mi ero imbattuta nelle bancarelle che vendevano strumenti e accessori per la medicina tradizionale e la locale stregoneria. Banconi di pezzi di animali selvatici e protetti, dal leone alla iena, all’aquila per terminare con bancali pieni zeppi di cadaveri di pappagalli e pipistrelli!
«Tutto legale» mi ha assicurato il venditore «siamo in Mali». Per due pappagalli salvati, a decine ne vengono uccisi per pratiche tradizionali per le quali non esiste nessun controllo. Una pratica purtroppo diffusa questa, così come il mercato di carne di animali selvatici e protetti, illegale ma in realtà « accettato » perché al tempo stesso fonte di sussistenza, visto che dall’altro lato c’è chi alimenta tale mercato e chi ne fruisce. Ma il mio viaggio di certo non era stato inutile.
Ho raccontato questa storia anche ai piccoli scolari delle classi che avevo incontrato. Guardavano le immagini come se si trattasse di un mondo lontano, e per la prima volta forse riuscivano a leggere quella realtà secondo un’altra prospettiva.
In questi giorni ho letto del salvataggio di tre leoni dallo zoo di Gaza. Un’organizzazione è riuscita a portarli in salvo dalla struttura bombardata e ora sta cercando di spostare, in Giordania, anche altri animali. I bombardamenti, a luglio, avevano causato la morte di 80 animali e solo 30 sono sopravvissuti.

Questo mi ha fatto inevitabilmente venire alla mente le immagini della missione di aiuto agli animali dello zoo di Kabul che avevo fatto, in un Afghanistan deturpato dalla guerra, al dramma di quelle povere bestie intrappolate in gabbie e traumatizzate dalle bombe, agli aiuti portati, al leone Marjan, un «re»ferito che non aveva mai conosciuto la libertà e per il quale sono riuscita a portare aiuti veterinari che forse gli hanno reso il «passaggio» solo più dolce, se questo è possibile; alla mia omonima, l’orsa Donatella, di cui mi sono occupata per mesi, che ho curato e che aveva riposto in me tutta la sua fiducia; il rapporto speciale con lo staff afghano, i miei problemi di coscienza, i piccoli successi (come riuscire a far costruire un pozzo per garantire acqua pulita agli animali e agli umani); la delusione e il travaglio interiore nel vedere che tanta sensibilizzazione e il miglioramento delle condizioni di vita di animali purtroppo prigionieri forse a poco è servito se poi la Cina ha deciso di «donare» altri animali. Ho ripensato agli animali dello zoo di Abidjan, in Costa d’Avorio, a quelle gabbie vetuste, fredde e umide, ai comportamenti compulsivi, gli occhi sbarrati e vuoti, agli aiuti portati in periodo di guerra e ai tanti tentativi fatti per convincere le autorità a permettere il trasferimento di alcune specie protette e, almeno, la trasformazione dello zoo in parco zoologico.

Nel corso degli anni e delle varie missioni effettuate, quella degli zoo è stata una delle realtà più tragiche con cui mi sono scontrata. Odiose strutture mascherate da falsi principi conservazionisti, soprattutto nei Paesi del terzo mondo o in conflitto, sono, ancor più, carceri a vita di innocenti creature la cui sopravvivenza è spesso tragicamente legata alle sorti politiche del Paese, o dalle capacità di sussistenza, in posti però in cui anche la semplice sussistenza umana è difficile.
Uno dei miei dilemmi e conflitti interni maggiori è quello di aiutare, in qualche modo e indirettamente, strutture che in realtà non dovrebbero esistere. La tanta sensibilizzazione che conduco in questi posti dovrebbe in realtà far parte di programmi educativi più vasti di rispetto per le specie e, soprattutto, dovrebbero essere esenti da logiche di profitto (gli zoo portano comunque soldi) o addirittura diplomatiche (spesso certe relazioni bilaterali si traducono in «doni» di animali tra Paesi).
Quando ho letto che, alla fine, l’organizzazione aiuterà a ricostruire lo zoo di Gaza, perché «la gente ama gli animali dello zoo», ecco, qui ho visto nuovamente il parziale fallimento di queste operazioni di emergenza. Certo, lo zoo dà da vivere a diverse persone, ma non è rinchiudendo nuovamente bestie innocenti in strutture che verranno inevitabilmente nuovamente bombardate che si può educare al rispetto della vita, anche animale.
La vita della «mia» orsa omonima, che ha segnato la mia e che alla fine è terminata in uno zoo sulla linea del fronte a Kabul, così come quella del leone Marjan, e di quelle decine e decine di bestie impazzite sotto i colpi di mortaio in una Abidjan in guerra, morti di fame e sete perché imprigionate in gabbie senza possibilità di fuga; così come quelle tristemente famose dello zoo di Sarajevo e ancora altri. A cosa servono questi «sacrifici»? Perché continuare a «donare» animali, da parte di certi Paesi?
Ho un sogno, e un obiettivo, e qui voglio continuare a indirizzare i miei sforzi: educare i piccoli, i futuri uomini di questo pianeta, anche in queste zone del mondo in cui ho la possibilità di lavorare, alla coscienza ambientale e al rispetto animale, dando la possibilità di accedere alle informazioni e di proteggere e rispettare il mondo a cui, anche loro appartengono.

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