domenica 31 gennaio 2016

Il paradiso della birra calda


Vi eravamo già stati e la padrona ci aveva spiegato che il motivo per cui la birra e le altre bevande non erano abbastanza fredde dipendeva dalla scarsa efficienza del frigorifero, alimentato dal fotovoltaico, e che stavano aspettando il tecnico che lo mettesse a posto. Quindici giorni dopo, sempre a Sant Augustin, alla medesima obiezione sul perché la birra fosse tiepida, Esperance ci ha dato la stessa risposta: stava ancora aspettando il tecnico. Suo marito, la sera, si è incaricato di inquadrare il problema nell'ottica giusta e, dicendomi che un frigo a gas sarebbe proibitivo perché le bombole costano 90.000 ariary e durano solo 20 giorni, mi ha fatto capire che la storia del tecnico è, appunto, una storiella, a uso e consumo dei clienti troppo esigenti. Sui prezzi del gas e sulla gestione dei bungalow non ho niente da obiettare; non sono affari miei. Ma sul fatto che di ritorno da una gita in piroga, assetato come il deserto del Sahara, mi piacerebbe assaporare una birra ghiacciata, credo sia mio diritto dirlo, ripeterlo ed esplicitarlo, senza incorrere nella disapprovazione di Chicche e Sia. E invece, è proprio quello che è successo sabato 30 gennaio e a farmi la ramanzina, dopo averlo messo al corrente delle intenzioni mie e di Tina di anticipare di qualche ora la nostra partenza, è stato proprio il mio conterraneo Ernesto Craighero, marito di Esperance.



Sul momento sono rimasto imbarazzato e interdetto, ma ho saputo fare buon viso a cattivo gioco. Posto che un cliente ha diritto di andarsene quando vuole, dopo aver saldato i conti, e stabilito che di norma le camere d'albergo si liberano prima di mezzogiorno, aver deciso di partire alle otto del mattino anziché nel pomeriggio, non avrebbe dovuto creare eccessivi turbamenti nel signor Ernesto. Oltretutto, dicendomi che se non ci si sa adattare alla brousse è meglio rimanere in città, dove ci sono tutte – o quasi – le comodità, stava andando al di là dei suoi compiti di ristoratore. Mentre mi diceva questo, pensavo alla sindrome del “boia chi molla”, come se avessi avuto con “Le paradis d'Esperance” qualche obbligo o un rapporto diverso da quello cliente-albergatore. E poi, considerato che la pietra d'inciampo della birra tiepida lo ha fatto uscire fuori dai seminati, prendersela per le lamentele di un cliente, dicendogli: “non venire più qui”, significa metterla sul piano personale e non voler migliorare la propria struttura grazie agli imput che possono venire dalla clientela. In quasi tutti gli alberghi, sul bancone della reception, c'è la scatola con la fessura dove introdurre critiche e suggerimenti, anche anonimi. Ma, evidentemente, migliorare il servizio non è nelle priorità di Esperance e di suo marito Ernesto. Liberi di scegliere. Non è affar mio.


Un'altra cosa che mi ha dato fastidio, mentre la sera, in piedi davanti al suo bungalow io e Tina volevamo salutarlo e dirgli che saremmo partiti presto, è che sembrava come se volesse portare attacchi “ad personam”, non avendo forse altri argomenti. Aver accostato la mia filosofia ecologista e animalista all'incapacità di bere birra calda quando si è lontani dalla civiltà, non ha molto senso, perché essere ecologisti non esclude l'avere i propri gusti in fatto di cibo e bevande. De gustibus non est disputandum. Non sta scritto da nessuna parte che un ecologista debba per forza anche bere urina di cammello nel caso in cui si perda nel deserto. Che a lui sia successo, di aver bevuto liquidi immondi in un'oasi marocchina, non può essere preso a paradigma del bravo viaggiatore avventuroso. Non può dirmi che sono un uomo debole, che il non mangiare carne mi ha squilibrato le funzioni cerebrali e che ho bisogno di uno psicologo, solo perché mi sono lamentato della mancanza di bevande ghiacciate. In altre strutture della brousse, come a Mangily, per esempio, i ristoranti ci riescono e se ce la fanno loro, potrebbe in teoria farcela anche “Le paradis d'Esperance”. Se non ci riescono è per altri motivi e non perché è capitato un cliente vegano, rompiballe e amante della birra gelata. Solo qualche ora prima, chiacchierando amabilmente, mi aveva rivelato che l'intera struttura è perennemente in perdita e che quando una volta l'anno, da Losanna dove vive abitualmente, va a trovare la moglie - e il figlio che ha avuto da lei - Ernesto deve ripianare i debiti. I bungalow sono quasi sempre vuoti e la struttura non viene chiusa solo perché la donna possa avere un lavoro che la tenga impegnata. Del resto, anche le altre strutture alberghiere di Sant Augustin hanno chiuso una dopo l'altra. Lì nei pressi ce n'è una in vendita per 11.000 euro, ma i bungalow sono fatiscenti perché inattivi da dieci anni. Le termiti hanno lavorato di brutto. Il vazaha che lo gestiva aveva problemi di alcolismo e se n'è andato a vivere come un eremita sulla montagna.


A Sant Augustin, il ristorante di Ernesto ed Esperance è l'unico posto dove si può dormire e trovare aragoste da mangiare. Purtroppo, la cuoca non sa fare nemmeno gli spaghetti al pomodoro, mentre Tina si è lamentata perfino del riso e fagioli. Un piatto di pomodori e carote lo fanno pagare 5.000 ariary, un prezzo davvero eccessivo visti gli ingredienti facilmente reperibili.


Quando ci siamo recati per salutarlo, ad Ernesto non ho detto le altre pecche (mi sono ben guardato dal farlo), ma qui le posso menzionare, perché rappresentano solo il quadro veritiero di una situazione a cui altri turisti potrebbero andare incontro. E quindi, è meglio essere informati. Oltre alla temperatura delle bevande inadatta a un clima tropicale, le bottiglie odorano di pesce perché sono tenute nello stesso frigo in cui si conservano i pesci, a contatto diretto con il loro sangue. Non occorre essere animalisti per trovare la cosa disgustosa. In camera viene sparsa quella polvere bianca usata per uccidere le formiche e, anche in questo caso, non occorre essere ecologisti per sapere che il veleno che nuoce alle formiche nuoce anche agli esseri umani. Infatti, al mattino si trovano molte blatte morte e una l'ho schiacciata io nel letto, la notte: me ne sono accorto solo al mattino. Il pavimento del bagno in cui si fa la doccia con la tazza di plastica, attingendo dalla tinozza com'è d'uso nella brousse, ha, per lo meno nel bungalow dov'eravamo alloggiati, un pessimo drenaggio, indi per cui si usa una scopa per spingere l'acqua verso il buco all'altezza del pavimento, facendo percolare il liquido all'esterno. Gli asciugamani in dotazione hanno odore di topo, federe e lenzuola non vengono cambiati tutti i giorni, né alcuno si presenta per svuotare il cestino dei rifiuti. Il fatto che non si cambino le lenzuola ogni giorno mi può andar bene, poiché acqua e detersivo, nella boscaglia, sono beni rari e preziosi.


E comunque, non è vero che non ho spirito di adattamento. Mi sono infatti adattato a entrare in acqua nella piscina naturale che Esperance ci aveva suggerito di visitare. Senza le pinne ai piedi non mi sento sicuro, ma avevo intenzione di usare maschera e boccaglio, cosa che con l'acqua trasparente del fiume mi è riuscita benissimo. Purtroppo, nessuno dei nostri due piroghieri conosceva il nome del fiume, ma in seguito Ernesto mi ha confermato che un nome ce l'ha, anche se nemmeno lui sa quale. I rematori, che per 20.000 ariary ci hanno portato verso la sorgente, lo chiamano “piscine naturelle”, alla francese. 


Di fatto, noi abbiamo visto come l'acqua cambiasse colore man mano ci si inoltrasse verso l'interno. Sebbene abbia visto qualche martin pescatore e alcuni piccoli aironi, mi è sembrato che le sponde ricche di vegetazione fossero piuttosto scarse in fatto di avifauna. Non mi stupisco di ciò perché i malgasci si dedicano meticolosamente alla spogliazione della natura, sia sopra che sotto la superficie del mare. Lo fanno per la loro sussistenza, lo capisco, ma di fatto l'ambiente viene depauperato. Le anguille, per esempio, non fanno in tempo a diventare grandi come quegli anguilloni, chiamati capitoni, che vediamo in vendita nei nostri mercati del pesce. Se qualcuno ha una piroga, passa la giornata sul fiume a pescare, ma se non ne ha entra nell'acqua torbida e rimane in ammollo tastando nel fango finché non trova ciò che cerca. Ho sentito dire che anche nelle lagune venete c'è chi riesce a catturare i pesci dei fondali fangosi a mani nude.


Per quanto riguarda la nostra avventura acquatica, sia io che Tina ci siamo presi un lungo bagno tonificante nell'acqua fredda e trasparente. Fra i nostri piedi, a pochi passi dalla riva del fiume e a circa un metro di profondità, c'erano dei piccoli pesci variopinti simili agli scalari. Non avevano alcun timore. Quasi si lasciavano toccare. Al ritorno, uno dei due pagaiatori si è gettato in acqua, mentre l'altro costeggiava, perché aveva visto sulla riva un albero di guava. Dopo un po', perfettamente a suo agio nell'acqua del fiume come lo è in quella del mare, da bravo Vezo, è ritornato gettando dentro la piroga alcuni piccoli frutti gialli, probabilmente acerbi. Verso la foce, i fenicotteri, di cui Ernesto mi aveva parlato già la volta precedente. Una trentina, ma non mi sono sembrati rosa come i nostrani, bensì bianchi. Potrebbe essere, per tale ragione, una specie diversa. Durante l'attracco, un paio di bambini malgasci di un anno d'età o poco più, insieme ad altri più grandi e alle loro madri, si sono messi a piangere terrorizzati: avevano visto.....l'Uomo Nero. Anzi, l'uomo bianco. Stessi condizionamenti culturali istintivi, benché invertiti.


La gita alla piscina naturale di Sant Augustin ci è così piaciuta che volevamo fare il bis il giorno dopo, ma la sera, a cena, vista l'impossibilità di estinguere la perenne sete con bevande fredde e non potendo mangiare nemmeno una “soupe cinoise”, di comune accordo abbiamo deciso di chiedere il conto e di partire domenica 31 rinunciando al secondo bagno. I piroghisti, al mattino dopo, si sono presentati ed erano visibilmente delusi. Sant Augustin è un posto quieto, che affascina con le sue rupi strapiombanti sul mare, ma di una quiete effimera, giacché va bene per una “botta e via”, per un pic nic, per qualche cicala di mare grigliata, non per lunghi soggiorni. Nel mio caso, devo constatare che i nostri due giorni come clienti del Paradis d'Esperance hanno avuto un finale spiacevole, un “venenum in cauda”. Mi dispiace, ma con la birra non si scherza!

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