sabato 11 marzo 2017

Nietzsche spiegato agli scolari


Ho trovato la porta aperta e sono entrato. L’avevo già vista da fuori anni fa, con tanto di allievi seduti ai banchi. Di sabato sono tutti a casa, studenti e professori, così ne ho approfittato per dare un’occhiata all’interno. Spoglia, disadorna, con i banchi in legno a blocchi di due posti uniti fra loro, come si usava da noi fino agli anni Cinquanta. Il pavimento sconnesso e pieno di polvere, le due finestre sempre aperte, le pareti ammuffite con l’intonaco scrostato. La parola bidello, sconosciuta. Una lavagna a muro, con la calligrafia dell’insegnante del giorno prima e – cosa assai strana per una scuola elementare – una frase di Fredric Nietzsche. Poi ho capito perché. A sinistra della lavagna, il tavolino traballante del professore. Immagino gli scolari, scomodi, ingobbiti e candidati alla scoliosi, costretti a mettere gli zainetti per terra, a passarci sopra, scavalcandoli, inciampandovicisi.



La superficie del banco scarsa, risicata, che non ci puoi mettere sopra nemmeno un foglio da disegno, senza nemmeno la buchetta per la vaschetta dell’inchiostro, che faceva tanto, da noi, epoca pre-industriale. Civiltà contadina. Le penne biro ormai hanno invaso il mondo. La porta era aperta, mi ha spiegato la mia guida, perché semplicemente la serratura è rotta e nessuno ha i soldi per metterne una nuova. La frase di Nietzsche, poco consona per scolari delle elementari era lì in bella mostra perché non si trattava di una scuola elementare ma di un liceo. Un liceo che usa i banchi rigidi, di quelli che avevamo noi quando l’Italia era povera, per ragazzi e ragazze di vent’anni. Le scritte incise sul legno, quando il professore è di spalle, testimoniano che il desiderio di lasciare traccia del proprio passaggio è universale. Quanti amori sono sbocciati in mezzo a quelle scomode assi?




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